Dott. Giovanni Papa, consulente psicoterapeuta Di Gioia & Clemente Avvocati
Una relazione d’aiuto prevede l’incontro tra una persona che necessita appunto di aiuto e una persona che dovrebbe possedere le competenze professionali, emotive ed umane per potersi far carico di ciò.
Detta con le parole di Carl Rogers (1951) “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato”.
Non basta voler aiutare una persona per riuscire a farlo bene. Non è un caso che diverse professioni sia per poter essere svolte sia per poter essere svolte bene necessitano di percorsi di formazione specifici (psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori professionali, medici, tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri, operatori socio sanitari, avvocati).
Aver cura dell’altro in un contesto professionale di cura e di aiuto non è affatto semplice, tanto più in contesti altamente problematici. L’esposizione ripetuta e reiterata nel tempo alla sofferenza dell’altro, infatti, può portare l’operatore impegnato in una relazione d’aiuto a sviluppare una serie di sintomi psicologici. La compassion fatigue (Figley, 2002) è il costo che tali professionisti possono avere entrando in contatto, ripetiamolo sempre in maniera ripetuta e reiterata, con il dolore dell’altro e può condurre a sviluppare un Disturbo post-traumatico da stress secondario, che presenta i classici sintomi di chi a seguito di un evento traumatico presenta una sintomatologia strettamente connessa a ciò che ha vissuto e che pervade la vita quotidiana.
Andando oltre nell’operatore impegnato in relazioni di aiuto può svilupparsi anche una cosiddetta traumatizzazione vicaria cioè una modificazione in negativo della visione delle cose, delle proprie credenze e modalità di percepire la vita, a seguito dell’esposizione sul lavoro a realtà altamente stressanti o addirittura traumatich. O ancora il burnout: una condizione di stress lavorativo (Freudenberg, 1974) o di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale (Maaslach, 1997). Non è un caso che il libro del 1997 della Maaslach si intitoli “Il prezzo dell’aiuto degli altri”.
Ma proviamo a girare la medaglia: come esiste una compassion fatigue esiste una compassion satisfaction, ossia la sensazione di star svolgendo il proprio lavoro nella relazione d’aiuto riuscendo a cogliere l’importanza della propria compassione per l’altro, sentendosi ben centrati ed equilibrati nel lavoro che si svolge, nonostante i “rischi” del mestiere. Inoltre, così come esiste una traumatizzazione vicaria esiste una resilienza vicaria, concetto molto giovane e fresco: l’entrare in contatto con la sofferenza dell’altro in contesti lavorativi in maniera costante può anche orientare positivamente la prospettiva di vita, le credenze e le percezioni del professionista, instillando in lui/lei un senso di speranza, o addirittura un senso di spiritualità, una maggiore autoconsapevolezza ed autoefficacia personali (Hernandez-Wolfe, Pilar, 2018), una maggiore centratura sul proprio lavoro e una migliore capacità di risoluzione dei problemi.
L’emergenza sanitaria Covid-19 ha visto e vede operatori sanitari e altri professionisti, molti dei quali lavorare in contesti in cui sono facilmente esposti al rischio di infezione, doversi far carico della salute e della sofferenza altrui (ad inizio emergenza sanitaria non sapendo nemmeno benissimo come muoversi e con un numero non sufficientemente adeguato di DPI). La mancanza di notizie su ciò che stava accadendo, i contagi numerosi e le morti altrettanto numerose, la sofferenza dei malati e la sofferenza dei familiari, privati spesso della possibilità di star accanto ai loro cari. L’osservare spesso senza poter far altro, quando tutto ciò che poteva esser fare era già stato tentato. L’esperienza di realtà comunitarie con fasce deboli (minori, anziani, pazienti psichiatrici) in cui operatori hanno dovuto gestire la propria paura e quella dei loro ospiti, già saturi delle proprie problematiche, a cui spiegare ciò che stava accadendo nel mondo circostante. La paura degli operatori di infettarsi a lavoro, oppure di infettarsi fuori e di portare il virus a lavoro ai loro colleghi e pazienti.
Come sviluppare allora resilienza in contesti simili? Innanzitutto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato come sia indispensabile che gli operatori impegnati in relazioni d’aiuto, soprattutto se lavorano in realtà aziendali od organizzative, si sentano sicuri e protetti, e cioè dotati di tutti i dispositivi di sicurezza. In contesti aziendali è importante poi dall’alto promuovere azioni tese a promuovere una resilienza organizzativa come “…l’abilità di un’organizzazione di progettare e incrementare comportamenti adattivi positivi a seconda della situazione nella quale ci si trova e riducendo al minimo lo stress correlato.” (Mallak. 1998).
A livello aziendale e dirigenziale appare importante che i lavoratori ricevano informazioni precise e accurate su ciò che accade, fase per fase e si sentano valorizzati e riconosciuti per il lavoro che stanno svolgendo. Lavorare in team e non sentirsi soli, così come la possibilità che diverse realtà aziendali hanno offerto ai loro dipendenti di ricevere adeguato supporto psicologico o, nel caso in cui l’Azienda non sia riuscita ad attivare un servizio direttamente, di far conoscere ai dipendenti i numeri telefonici utili di servizi attivi in ambito nazionale e regionale cui fare riferimento, si sono rivelati tutti importanti fattori protettivi o comunque di intervento in casi di disagio più o meno grave avvertito dai dipendenti.
A livello individuale è risultato e risulta importante attivare le self-care strategies, ossia tutte quelle strategie tese a promuovere la cura della propria persona, al di fuori del lavoro: impegnarsi in attività rilassanti, che facciano bene al proprio corpo e alla propria mente, che spezzino la routine di contesti lavorativi stressanti, il ricorso alla propria rete familiare, amicale e sociale più vasta. Tutte queste strategie in realtà sono di per sé necessarie in qualsiasi realtà lavorativa ma si sono rivelate esserlo maggiormente da marzo 2020 in poi.
Credo sia necessaria, inoltre, una riflessione attenta e accurata che ogni operatore impegnato in una relazione d’aiuto dovrebbe porsi sicuramente rispetto alle proprie risorse e alla propria possibilità di esserci e di fare ma anche rispetto ai propri limiti: abbandonare i deliri di onnipotenza e salvifici. Porsi dei limiti rispetto al tempo dedicato al lavoro (fuori del quale cercare di attivare le self-care strategies, su citate) e rispetto alle risorse emotive, fisiche, psicologiche impiegate nel proprio lavoro.
E’ più utile, invece, porre il proprio lavoro, il proprio intervento, il proprio contributo all’interno di un sistema, in cui non è pensabile che tutto dipenda da noi e tutto possa essere fatto da noi, salvaguardare la propria salute psicofisica, confidare nell’aiuto del collega. Tutto ciò potrà rendere il proprio lavoro più produttivo e farci sentire realmente utili all’interno del contesto lavorativo in cui ci troviamo a svolgere la nobile ma complessa arte di aiutare l’altro.
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Bibliografia
- Cagnoni, F., Milanese F. (2009). Cambiare il passato. Superare le esperienze traumatiche con la psicoterapia strategica. Milano: Ponte alle Grazie.
- Figley, C. R. (Ed.). (2002). Treating compassion fatigue. New York: Brunner-Rutledge.
- Freudenberger, H. J. (1974). Staff burn-out. Journal of Social Issues, 30(1), 159-165.
- Hernandez-Wolfe, Pilar. 2018. “Vicarious Resilience: A Comprehensive Review”. Revista de Estudios Sociales 66: 9-17.
- Kang L, Li Y, Hu S, Chen M, Yang C, Yang BX et al. The mental health of medical workers in Wuhan, China dealing with the 2019 novel coronavirus. Mar 2020 Volume 7 Number 3 p217-290, e 8-e 14. Published: February 05, 2020DOI
- Mallak, L. (1998). Putting organizational resilience to work. INDUSTRIAL MANAGEMENTCHICAGO THEN ATLANTA-, 8-13
- Maslach, C., & Leiter, M. P. (1997). The truth about burnout: How organizations cause personal stress and what to do about it. Jossey-Bass.
- Rogers, C. (1951). Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications and Theory. London: Constable
Web:
- https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/
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