Crescere un figlio è un compito difficile. Essere dei bravi genitori lo è ancor di più dal momento che non esistono in commercio dei manuali che ci insegnino come educare al meglio un figlio.La nostra società, col passare del tempo, si è molto evoluta e questa evoluzione ha riguardato, anche, i modi con cui un genitore deve impartire l’educazione alla propria prole. Metodi che in passato erano, pacificamente, ammessi (come, ad esempio le botte o le punizioni), oggi non lo sono più. E, in determinate circostanze, questi comportamenti possono addirittura configurare il reato di maltrattamenti in famiglia.È questo il caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella recentissima sentenza n.7511 del 25 febbraio 2021. In particolare, nella vicenda sottoposta all’esame dei giudici della Suprema Corte, un padre aveva sistematicamente sottoposto la figlia minore a comportamenti degradanti che, per la loro la loro invadenza e per le sofferenze morali che le provocavano, al punto da indurre la ragazza ad iniziare a fare uso di droghe, non potevano essere qualificati come metodi educativi e/o correttivi. L’umiliazione e la svalutazione della personalità della giovane (realizzate, ad esempio, attraverso la sottoposizione della figlia a visita ginecologica per verificarne la verginità oppure la richiesta del padre di orinare in sua presenza per effettuare un test tossicologico), non avevano alcuna connotazione educativa ma realizzavano soltanto immotivate sopraffazioni e oppressioni.
Per queste ragioni, la Corte affermava il seguente principio di diritto: “L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche se sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.”
La condotta posta in essere dal genitore-imputato veniva, pertanto, inquadrata dai giudici della Suprema Corte nella fattispecie di maltrattamenti in famiglia prevista dall’art. 572 c.p., aggravata dall’aver commesso il fatto ai danni di un minore degli anni 18. A nulla rilevavano le presunte finalità rieducative che l’imputato affermava di aver voluto con realizzare attraverso le condotte incriminate.Il delitto di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., punisce con la reclusione da tre a sette anni: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.“
Il reato in questione è un reato proprio, perché può essere posto in essere soltanto da chi è legato alla vittima da un rapporto di parentela, coniugio o convivenza.Infatti, ai fini dell’applicazione di questa fattispecie vengono, pacificamente, considerati “familiari” non solo, come avveniva un tempo, il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati e gli adottanti. Proprio a seguito dello svilupparsi della società, il concetto di familiare è, oggi, cambiato e vengono in esso ricompresi anche il convivente more uxorio e tutti coloro che sono, comunque, legati da un rapporto di parentela con il maltrattante nonché i soggetti con esso conviventi.
Secondo quanto affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, può essere qualificato come “maltrattante” qualsiasi complesso di atti prevaricatori, vessatori e oppressivi.Questi atteggiamenti devono essere ripetuti nel tempo: quello in esame è, difatti, un reato abituale, essendo caratterizzato dalla ripetizione nel tempo dei comportamenti incriminati i quali, considerati singolarmente, potrebbero anche non essere punibili, ma che, invece, acquistano rilevanza penale proprio per effetto della loro ripetizione.Questi comportamenti devono essere tali da provocare nella vittima un’apprezzabile sofferenza fisica o morale o, anche, tale da pregiudicarne il pieno e soddisfacente sviluppo della personalità. Ai fini della sua configurabilità, il delitto di maltrattamenti in famiglia richiede il dolo generico inteso come coscienza e volontà di porre in essere i comportamenti maltrattanti, essendo irrilevante il motivo per cui il soggetto li pone in essere.
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